Cotto e guardato: novembre 2020
Sei nuove mini recensioni, irresistibili e gustose come i macarons azzurri!
Sei nuove mini recensioni, irresistibili e gustose come i macarons azzurri!
Il mese scorso ho guardato più cose e mi sono tenuta stretta con le parole. Questo mese ho visto (solo?) sei serie su cui in compenso ho tantissime cose da dire.
Faccio una sintesi per chi è di fretta: se dovete scegliere di guardare una sola delle serie di questo mese, scegliete The Crown. O The Mandalorian. Ma sarebbe meglio tutte e due.
E via che si va.
AMERICAN HORROR STORY: COVEN (PRIME VIDEO)
Questa è una storia di donne. Gli uomini contano poco, sono comparse, servitori muti (letteralmente), un mezzo per raggiungere un fine, anche perché “il loro ego è così fragile”.
Il tema delle streghe diventa metafora di certe dinamiche femminili istintive e ataviche che esistono da quando esiste il mondo.
Fiona, strega Suprema, dice alla figlia Cordelia: “Hai preso i miei poteri nel momento in cui sei venuta al mondo. Quando una donna diventa madre non può fare a meno di vedere la sua morte nel visetto angelico di suo figlio. Ogni volta che ti guardavo vedevo la mia fine”: la sua è una maternità esasperata, viscerale, che, non accettando la propria mortalità, rifiuta di riconoscere il valore della figlia.
Non credo sia un caso se la nuova Suprema sarà la strega sterile.
A margine: delle tre le figure principali, il personaggio più spaventoso non è una strega ma l’immortale Madame LaLaurie, sadica serial killer di schiavi realmente esistita, interpretata da Kathy “Misery non deve morire” Bates.
THE CROWN S03 e S04 (NETFLIX)
Non c’è dubbio che questa serie sia un capolavoro, l’ho già detto. Gli attori sono immensi – tutti, anche le comparse.
La scrittura è impeccabile, racconta la Storia e le storie senza mai sbrodolare: pur trattandosi di una saga, ogni episodio sviluppa una trama autoconclusiva. Che detto così sembra banale, ma non lo è per niente. Siamo ormai troppo abituati a sottotrame cui star dietro per decine di episodi, mentre qui Peter Morgan le risolve in cinquanta minuti. È anche vero però che The Crown è British: questa è gente che sa quando fermarsi, senza portare le serie allo sfinimento per inseguire gli ascolti (ciao Meredith Grey, ciao).
In questo secondo ciclo - quello della maturità della Regina - cambia il tono della narrazione.
Già nella terza stagione si fa strada un costante senso di infelicità che accomuna tutti i personaggi. L’arrivo di Diana aggiunge un senso tangibile di tragedia imminente, già dal secondo episodio, con il metaforone del cervo ferito. Il fatto poi che sia storia recente e che tutti sappiamo come andrà a finire non lascia spazio alla speranza.
Alla fine della stagione ci rendiamo conto di aver assistito al ritratto di una famiglia disfunzionale, anaffettiva, fragile, che cerca di non sfaldarsi davanti ai progessi della modernità. Dove chi non sta alle regole (le regole della Corona, a prescindere da chi la indossa) è condannato a soffrire, che sia un futuro re innamorato di una donna sposata o un’ingenua principessa che ha creduto alla favola del principe azzurro.
Filippo è chiaro con Diana, nell’ultimo episodio: “Ognuno di noi in questo sistema è un estraneo, perso, irrilevante e solo, eccetto una persona: l’unica persona che conta. Lei è l’ossigeno che noi respiriamo, l’essenza di tutti i nostri doveri”.
Se non accetti di far parte del sistema, sei fuori. Lo avevamo già capito con Margareth (che comunque sa di essere parte integrante di questo sistema), ora non abbiamo più dubbi.
Lo sappiamo, è fiction. Non possiamo sapere con certezza quanto la realtà sia stata romanzata, ma credo parecchio.
Consiglio un minimo di pensiero critico nel guardarla.
IL METODO KOMINSKY (NETFLIX)
Comedy intelligente, divertente e ben scritta, dialoghi rapidi e arguti e due grandissimi attori che si fanno voler bene da subito (l’autore, Chuck Lorre, è quello di Big Bang Theory, quindi non mi aspettavo niente di meno).
Irresistibile il cameo di Danny De Vito, come urologo di Sandy, e quello di Kathleen Turner, come sua ex moglie, ancora più ironico se si pensa che tutti e due erano con Michael Douglas ne La guerra dei Roses.
Consigliatissima.
(Speravo in un incontro con Grace & Frankie, le altre due anzianotte di casa Netflix, ma ho letto che Alan Arkin non sarà nella terza serie. Sigh.)
AMERICAN HORROR STORY: MURDER HOUSE (PRIME VIDEO)
Ringalluzzita dal fatto che né Asylum né Coven mi hanno fatto paura, in un delirio di onnipotenza ho deciso di recuperare anche la prima stagione di AHS, che avevo scartato perché temo fortissimo le storie di case infestate.
Per i primi episodi bisogna accettare che non manchi nulla di quello che ci aspettiamo (strizza compresa): porte che si aprono da sole, scantinati dove succede tutto ciò che deve succedere in uno scantinato, ombre in secondo piano, fantasmi che ti osservano mentre dormi, mani che escono da sotto il letto.
Anche qui il filo conduttore è la maternità, questa volta negata e per questo fonte di insopportabile sofferenza.
Dopo pochi episodi la tensione perde mordente, e ci rendiamo conto che non siamo molto lontani dalla dinamica mondo di sopra/mondo di sotto di Downton Abbey: ci sono i vivi con i loro problemi e i morti - tantissimi! - le cui tragiche vicende si rivelano da subito molto più interessanti. I due mondi inevitabilmente si fondono, verso un inusuale lieto fine. Che però perde per strada parecchi elementi.
A questo punto mi sento abbastanza forte da guardare anche Freak Show. E lì c’è un clown, non so se mi spiego.
THE QUEEN’S GAMBIT (NETFLIX)
Io, che perdo la concentrazione anche giocando a rubamazzo, che cambio stanza e poi non mi ricordo perché, ho seguito con passione la storia di questa ragazza che visualizza infiniti schemi di gioco sul soffitto della sua stanza e sono stata in punta di sedia a ogni partita, pur non avendo idea di che cosa stesse succedendo.
Qui la spiegazione della mossa di cui al titolo originale: non ci ho capito una mazza.
Non siamo di fronte a un dramma, la storia di Beth è un parabola in ascesa con pochi inciampi, che in realtà servono le tappe dell’evoluzione narrativa del personaggio.
Non viene calcata la mano sugli eventi tragici: sono motore per l’azione, transito per il passo successivo (e se conoscessi gli scacchi qui aggiungerei un’ardita metafora sul sacrificio tattico di alfieri e cavalli, marchio della strategia di gioco di Beth, ma meglio evitare).
Anzi, la mancanza di difficoltà vere e proprie rende questa mini serie rassicurante, ottimista, e per questo atipica: il fatto stesso che Beth sia una donna che si muove su un terreno maschile non costituisce di per sé un grosso ostacolo, piuttosto sottolinea la caparbietà di chi sa cosa vuole e va avanti per la sua strada finché non la ottiene (ma sia chiaro: se Beth fosse stata un uomo, la storia non sarebbe stata altrettanto interessante).
Con la stessa naturalezza (quasi noncuranza), questo racconto tocca tutti i temi che oggi ci devono essere: il razzismo, l’omosessualità, l’amicizia, l’amore, il sesso, il suicidio e naturalmente la droga e l’alcol. Non manca niente. Sono temi che stanno lì, statici, non vengono messi in discussione né vengono in qualche modo commentati: esistono. Tutto gira intorno alla crescita di Beth, il resto è contorno funzionale.
Insomma La Regina degli Scacchi mi è piaciuta, ma mi chiedo se tra un anno ne avrò memoria.
THE MANDALORIAN S02 (DISNEY+)
[Dice: eh, ma la seconda stagione non è ancora finita, perché ne parli? Perché ne ho bisogno, ok? Ok.]
Faccio parte della nutrita schiera di persone che sono impazzite per Mandalorian (sì, c’entra anche The Child, aka Baby Yoda, aka nonpossodirlo).
Cerco di fare proseliti, ma finora ho avuto poco successo e non capisco perché. Sono poco convincente? Non ci metto abbastanza passione? Non ci metto abbastanza coercizione? Non lo so.
Vediamo se con una lista delle cose per cui mi piace ho più fortuna (e poi è sempre un buon momento per fare una lista).
Le 8 ragioni per cui amo The Mandalorian.
Rievoca l’atmosfera pura della prima trilogia di Star Wars. Jon Favreau e Dave Filoni non ce li meritiamo. Esaltano tutto il potenziale dell’universo di SW infondendolo di puro amore.
Anche se l’universo narrativo è quello di Star Wars, se non riconosci i riferimenti te lo godi lo stesso (ma godi solo a metà - infatti adesso che i rimandi a Rebels e Clone Wars si stanno facendo espliciti mi sento in dovere di rimediare).
L’impianto narrativo è western, dal pistolero solitario ai paesaggi, dalla colonna sonora ai villaggi da difendere. E se nessuno se ne fosse accorto nella prima stagione, ci pensa l’esordio della seconda a toglierci ogni dubbio, su una Tatooine con tanto di saloon e sceriffo.
Ma siccome il western a cui Favreau fa riferimento è quello di Sergio Leone, che ha avuto radici più o meno ammesse nella cinematografia di Akira Kurosawa, che a sua volta si rifaceva a John Ford, non mancano le dichiarazioni d’amore ai classici wuxia e chanbara della cinematografia orientale (l’episodio 5 della seconda stagione è un film di cappa e spada e ho iniziato a volare).
La trama orizzontale è quasi pretestuosa, semplice, esile, e infatti prosegue senza fretta: Din Djarin è un cacciatore di taglie che cerca di capire dove deve riportare il Bambino e intanto cerca di trovare altri Mandaloriani.
Ogni episodio è un’avventura a sé: sulla lenta strada della sua indagine, in ogni episodio si ferma per aiutare qualcuno.E questo mi porta a tutta una serie di telefilm che guardavo da piccola.
I riferimenti che ho colto io (ma di sicuro ce ne sono decine di altri che non ho riconosciuto) sono nostalgia pura: Mandalorian richiama gli antieroi solitari che cercano di raggiungere una meta senza mai arrivarci veramente. Fa così anni ‘80!
C’è Kung Fu, quello con David Carradine, c’è anche L’Incredibile Hulk, ma soprattutto c’è il mio preferito di sempre: Samurai (tratto dal manga Lone Wolf & Cub), che davano tardissimo alla sera su Italia 1 e che io potevo vedere solo perché piaceva anche a mio padre. Per me è stato immediato riconoscere che il Mandaloriano e il Bambino sono Itto Ogami e Daigoro.
Qualcuno di voi se li ricorda?Bastano cinque minuti per identificarsi in Din Djarin, il mandaloriano che non si toglie mai il casco, che parla solo quando deve (alleluia!) e che raramente si scompone. Pedro Pascal, poi, riesce ad essere espressivo senza mostrare il volto. Si vede che la Vipera Rossa ha imparato la lezione.
Ho lasciato per ultimo The Child, ma solo per pudore.
Ho l’impressione che il mio fallimento nel fare proseliti dipenda proprio dal mio martellare sulla sua irresistibile pucciosità.
(Dai! Ma come si fa a resistergli???)
This is the way.
Qui un’utile infografica con la storia dei Mandaloriani.
BARBARI (NETFLIX)
Last but least…
Che noia! Mollato dopo un episodio e mezzo, non ho modo di sapere se dopo migliora (non credo).
I barbari parlano in tedesco e i romani in latino, ok, wow.
Intanto continuavo a pensare a “SBABBARI, uomini di inaudita viulenza” e non riuscivo a prenderli sul serio.