Oh. My. Gawd. Il mondo sta ripartendo davvero?
Mi sono distratta un attimo e maggio mi è passato sotto il naso, è successo anche a voi? Nel frattempo ho avuto a che fare con due avengers, un gruppo di fantasmi, sei amicə, uno stilista, parecchi eroinomani e una voyeur. Ho anche imparato a scontornare con Photoshop, ma resto umile.
Già che ci sono, approfitto per dirvi che su Starz è uscito Its’s a Sin: ne avevo parlato a febbraio, andate a recuperarlo.
THE FALCON AND THE WINTER SOLDIER (DISNEY+) - ¡SPOILER!
Come Wandavision, anche questa è una origin story che trova nel formato seriale uno sviluppo narrativo di ampio respiro e davvero soddisfacente.
I sei episodi che compongono la serie sono sufficienti per raccontare la nascita di un “nuovo” supereroe Marvel, costruendo un’altra base solida per il futuro del MCU.
Mi è piaciuto molto: la trama regge bene, tutte le scene d’azione sono perfette, di qualità cinematografica, e i momenti comici sono gustosi e ben calibrati, alla faccia mia che avevo paura della buddy action comedy.
L’approfondimento psicologico è tutt’altro che superficiale, ma anzi molto coerente con la narrazione relativa alla vulnerabilità emotiva dei supereroi che avevo già notato in Wandavision. Qui il tema della salute mentale è reso ancora più esplicito dal difficile percorso di Bucky per deprogrammare la propria mente dai condizionamenti che lo avevano reso il Soldato d’Inverno.
I discorsi paralleli che vengono portati avanti in questa serie sono quello della rappresentazione e quello dell’accettazione: se da una parte le persone di colore sono finalmente rappresentate come protagoniste (e non più solo come spalla del supereroe bianco), dall’altra questa costruzione narrativa del nuovo Captain America serve anche (purtroppo) a far accettare questo personaggio ai moltə che storceranno il naso (in genere quelli che dicono: “non sono razzista, ma…”, dimostrando così di essere razzistə).
Se Steve Rogers ha lasciato lo scudo a Sam è perché Steve sapeva già, prima degli altri e prima di Sam stesso, che sarebbe stato lui a rappresentare i valori di Captain America.
TFatWS serve a dimostrarci che Steve aveva ragione, nel lungo percorso di rifiuto e accettazione da parte di Falcon. E lo fa passando dalla storia di Isaiah Bradley a quella di John Walker, che spero avranno un seguito.
GHOSTS (BBC)
Le serie british mi danno sempre soddisfazione: non fa eccezione Ghosts, serie piccolissima e misconosciuta ma di grande qualità.
La trama in breve è questa: una coppia eredita un maniero nella brughiera inglese infestato dai fantasmi. Lei, Alison, batte la testa e inizia a vedere e sentire tutti gli abitanti della villa, che sono davvero tanti.
Dice: eh, ma tu ultimamente parli solo di horror e a me non piacciono.
E invece no, perché questa è una serie comica! Tié.
Ci metterete circa dieci minuti ad affezionarvi a ognunə di loro: c’è il ministro morto sul cesso e quindi nudo dalla vita in giù, il capo boy scout con una freccia piantata nel collo, il poeta romantico che si innamora subito di Alison, il Generale che cerca senza successo di mantenere un rigore militare tra i suoi “colleghi”, la pro-pro-pro-pro-pro zia di Alison, che ogni notte ripete la dinamica della propria morte, l’ingenua inserviente curiosa e entusiasta, la contadina morta sul rogo e l’uomo primitivo, che ha imparato a giocare a scacchi, peccato che nessuno possa muoverne i pezzi. E non sono neanche tuttə, ma non dico altro per evitare spoiler.
Ghosts è una serie consigliatissima, vale la pena faticare un po’ per reperirla.
FRIENDS: THE REUNION (NOW)
Operazione nostalgia perfettamente riuscita, questo speciale è davvero un incontro tra vecchiə amicə che non si vedono da anni. E lo fanno con molte lacrime e molte risate, un po’ goffə e imbarazzatə all’inizio, per poi sciogliersi e ritrovare l’atmosfera e l’intesa di diciassette anni fa.
Forse sono la solita ingenua, ma ho visto un’umanità autentica sotto le costruzioni artificiose.
Mi è piaciuto: da fan di vecchia data della serie mi sono ritrovata in mezzo a loro a ridere molto e a lacrimare un pochino (un pochino ma in continuazione, a dire il vero).
Con un’eco di amarezza per il membro del gruppo che sembra messo male (Matthew Perry) e per il tempo che passa impietoso per tuttə, questa reunion si trasforma - come la serie originale - in una storia universale.
La domanda che gira ovunque è se ce n’era davvero bisogno: non credo che ci sia una risposta giusta.
HALSTON (NETFLIX)
Mini serie in cinque parti tratta da un libro che non ho mai letto su uno stilista che non conoscevo, l’ho guardata sulla fiducia perché è di Ryan Murphy: non sono rimasta delusa.
La storia in sé è abbastanza scontata - ascesa e caduta di un mito - ma l’ambientazione, il periodo storico e il personaggio queer offrono un punto di vista diverso rispetto alla narrativa cui siamo abituati.
Halston è un genio, ma non è in grado di rendersi conto di quanto il suo successo non derivi solo dal suo estro creativo: le persone intorno a lui, quelle che lo amano e lo aiutano nella sua ascesa, hanno le vere idee, che lui, grazie alle sue intuizioni, rende proprie senza neanche un grazie.
Narcisista patologico, egocentrico, cocainomane, egoista, si fa il vuoto intorno e, con un pessimo senso per gli affari, arriva a perdere i diritti sul proprio nome: solo alla fine si renderà conto di aver sbagliato tutto.
Non è facile empatizzare con Halston, ed è proprio questo il focus di tutta la narrazione: è un personaggio respingente, che non sa farsi amare e che rende la vita impossibile a chi gli sta accanto.
Ewan McGregor ne dà un’interpretazione impeccabile, dai piccoli gesti alla voce agli sguardi impercettibili con cui lascia intuire la solitudine e l’insicurezza della persona dietro al personaggio.
L’ANGOLO DELLE DELUSIONI
NOI, I RAGAZZI DELLO ZOO DI BERLINO (PRIME VIDEO)
“Piscio e merda dappertutto”: così esordiva il film del 1981, una frase che anticipava il tono e l’atmosfera di tutta la narrazione.
Questa versione seriale del 2021 manca completamente il bersaglio. Forse può fare effetto a chi non conosce il film o il libro, ma chi come me è statə segnatə dalla storia di Christiane F., non può che rimanerne delusə.
L’ambientazione anni ’70/’80 è irreale e edulcorata. Il Sound, “la discoteca più moderna d’Europa”, è così moderna che c’è la musica house e techno. Pulita, piena di luce, rassicurante.
Gli attori e le attrici dimostrano ben più di 14 anni. I capelli sono sempre puliti e lucidi, la pelle è liscia e splendente, la rota è una breve passeggiata e la disintossicazione è un brutto hangover.
Sembrano un gruppo di ragazzi e ragazze che fanno i capricci, che si drogano perché non hanno ambizioni e non perché la vita li ha spezzati prima ancora di cominciare.
Ogni tanto si tenta la strada della metafora, ma in modo un po’ dozzinale, come il dj che rappresenta l’angelo della morte (credo) o il letto che si infossa, copiato malamente da Trainspotting.
Anche la serata del concerto di David Bowie (punto cardine nella storia orginale) è sprecata, anzi la figura del Duca Bianco è quasi vilipesa: gli fanno fare una specie di comparsata all’orinatoio. Christiane si fa il suo primo buco in uno sfavillante dietro le quinte del palco (invece che in uno schifoso bagno della stazione), in sottofondo non Bowie ma una cover - noiosissima - di Chandelier. Senza senso.
Persino battere la strada viene rappresentato come se fosse una cosa spensierata e divertente.
Manca lo squallore, la solitudine, il degrado, l’abbandono, la ricerca continua del prossimo buco, il sacchetto di plastica. Più lo guardavo e più pensavo a un’opera di sciacallaggio nei confronti di un libro e di un film che ancora oggi funzionano, proprio perché sono veri.
Ultimo elemento di polemica: una storia omosessuale buttata lì a caso e senza contesto che mi puzza tanto di rainbow washing per adeguarsi al pubblico del 2021.
Vogliamo parlare del lieto fine? No, non vogliamo, fidatevi.
Questa è una serie leggera che leggera non doveva essere.
Non guardatela. O guardatela per darmi ragione.
LA DONNA ALLA FINESTRA (NETFLIX)
Cast stellare per un thrillerone che regge bene fino a un certo punto, questo film si consuma in un finale frettoloso e abbastanza banale.
La regia di Joe Wright, tra citazioni (didascaliche) e riprese oniriche (a volte interessanti), mi è sembrata un grande autocompiacimento onanistico.
La storia è abbastanza prevedibile: una donna che passa per pazza ma poi così pazza non è. Amy Adams è agorafobica, si nutre di vino e psicofarmaci, e passa il tempo a spiare il vicinato dalla finestra. Ça va sans dire, vede un omicidio e nessuno le crede, poi viene fuori che è vero tutto e non è così pazzerella: ma non sarebbe un bel colpo di scena se per una volta avessero ragione gli altri?
Gary Oldman è sprecato in una particina che poteva recitare chiunque: va bene un ruolo piccolo per un grande attore, ma che almeno sia un ruolo memorabile.
Usate le tende. Davvero. You non vi ha insegnato niente?