Cotto e guardato: febbraio 2021
La rubrica con l’ansia perché c’è troppo da vedere e troppo poco tempo.
La rubrica con l’ansia perché c’è troppo da vedere e troppo poco tempo.
Questo mese quattro bombette notevoli e nessuna delusione, semmai un dispiacere che ho giustificato con la forza dell’ammmore: mi riferisco a American Horror Story Apocalypse, il tanto atteso crossover tra Coven e Murder House, che una persona più coerente di me avrebbe inserito nell’angolo delle delusioni. Ma che mi frega, dico, questa paginetta è mia e me la gestisco io. Avrete ormai capito che su AHS non sono mai stata obiettiva.
Figuriamoci: sono già qui che aspetto scodinzolando che esca la decima stagione! Qualcuno sa quando esce?
Così ho sospeso l’angolo delle delusioni e ho aggiunto i “Vuoti di memoria”, per una paio di cose che mi sono piaciute ma che scorderò in fretta.
Iniziamo dalle bombette, tra le quali manca Wandavision solo per una formalità burocratica (finisce il 5 marzo).
IT’S A SIN (STARZPLAY) 💣
Questa mini serie britannica descrive senza sconti l’irruzione della pandemia di AIDS sulla scena omosessuale maschile degli anni ’80 e lo fa raccontando di un piccolo gruppo di amici, che, rifiutati ed emarginati dalle famiglie di origine, hanno cercato a Londra l’emancipazione e la libertà di poter vivere la propria vita.
Questa è sicuramente una delle serie più belle dell’anno, così chiarisco la mia posizione e sono libera di parlare del resto.
Perché - brace yourself - ho davvero tante cose da dire.
L’autore
Russell T Davies è uno dei più importanti sceneggiatori televisivi britannici: a lui dobbiamo il rilancio di Doctor Who nel 2005 - e già questo giustifica una gratitudine eterna nei suoi confronti. Ha creato nel 1999 una serie spartiacque come Queer as Folk e nel 2019 un altro capolavoro come Years and Years. Insomma: lui scrive, io guardo.
La sua scrittura è caratterizzata da un realismo che raramente fa sconti (nel bene e nel male), eppure non manca mai una grande umanità unita ad un forte senso dell’umorismo.
Sa farti affezionare in fretta ai suoi personaggi e lì arriva la botta, perché un’altra caratteristica di Davies è quella di spezzarti il cuore come solo quelli bravi sanno fare, quando ti ritrovi a singhiozzare e a volerne di più.
Queste sue caratteristiche non mancano in It’s a Sin, dove non dovete aspettarvi solo la tragedia e il dolore, ma anche molta gioia e molto amore.
L’AIDS
L’argomento della serie è tuttora scomodo e porta a galla un dolore che per molti è ancora radicato.
Negli anni ’80 l’epidemia di AIDS ha spazzato via un’intera generazione di omosessuali. I sopravvissuti si ritrovano ancora oggi a chiedersi perché l’hanno scampata, con un fondo di senso di colpa nei confronti delle vittime, credo, che difficilmente si scrolleranno mai di dosso. Davies ha attinto anche alla propria memoria e a quella di altri sopravvissuti per scrivere questa sceneggiatura.
Questa serie è stata girata nel 2019, quindi le analogie con la situazione attuale sono casuali, ma: l’arrivo di questa malattia sconosciuta si accompagna a una forte dose di negazionismo e incredulità, alimentati anche dalla totale mancanza di diffusione delle (poche) informazioni.
Una conseguenza molto positiva che ha avuto questa serie in Inghilterra è che sono aumentati i test Hiv: la sensibilizzazione sull’argomento non è mai abbastanza, visto che il virus è tutt’altro che sconfitto, nonostante i progressi nelle terapie.
La nostra memoria
Leggendo alcuni commenti online mi sono resa conto che oggi i più giovani […ouch!] sono perfettamente coscienti di come si comporta questo virus ma non hanno idea di come stavano le cose quando l’epidemia è cominciata. Non sanno che era considerata “il cancro dei gay”, non sanno che se ne parlava pochissimo perché le vittime erano “solo” gli emarginati della società (gli omosessuali e i tossicodipendenti) e non sanno che gli studi più seri sono iniziati molto tardi, cioè quando l’AIDS ha iniziato a colpire anche i maschi bianchi etero.
E in questo senso sì che oggi si potrebbe fare un paragone con la pandemia che tutti ben conosciamo e con la reazione immediata che c’è stata a livello mondiale.
Negli anni ’80 invece questa epidemia è stata solo una ragione in più per alimentare l’omofobia già imperante in una società che ha colto l’occasione per inasprire emarginazione e discriminazione: la malattia era un marchio di vergogna, uno stigma. E per la vergogna non se ne parlava e non si chiedeva, in un letale circolo vizioso.
It’s (not) a sin
Lo stigma in realtà c’è ancora oggi, l’AIDS è ancora una malattia legata al peccato, in cui la vittima viene colpevolizzata dalla società, e parlarne è ancora un tabù, anche se non quanto prima.
It’s a Sin è un manifesto di emancipazione da questo senso di vergogna, e lo fa anche attraverso il bellissimo monologo finale di Jill, sulla vergogna di essere gay che affonda le sue radici nelle famiglie di origine, colpevoli di averli emarginati (Gli ospedali sono pieni di uomini convinti di meritarselo. Anche in punto di morte, una piccola parte di loro è convinta che sì, è giusto così. Credono di esserne la causa, che sia la punizione per aver continuato a fare l’unico sesso che desideravano. Ammettiamolo, è sorprendente. Ecco il virus perfetto che dà ragione al tuo pensiero. Ecco cos’è successo nella tua casa. È morto per colpa tua. Sono tutti morti per colpa tua), a cui fa da contrappunto l’amara constatazione di Richie sul fatto che questa malattia ha preso il sopravvento su persone che volevano solo vivere a pieno la propria vita (È questo che la gente si dimenticherà, che è stato troppo divertente).
Quest’opera dipinge in modo molto chiaro quel decennio, assumendo così anche un carattere di importante testimonianza di un periodo forse più lontano nel tempo di quanto io percepisco e può essere per questo una visione molto interessante per le nuove generazioni.
Mi piacerebbe ancora parlare della dicotomia campagna/città che segue tutta la narrazione e del coinvolgimento delle famiglie, ma mi rendo conto che mi sto dilungando davvero troppo (e se stai ancora leggendo, grazie di cuore!).
Online si parla molto di questa serie anche per il suo valore storico e culturale, eppure non sono sicura che approderà in Italia.
Io credo molto nel passaparola: iniziate guardando il trailer e poi decidete di fare quel che è giusto fare (cioè cercare It’s a Sin per i fatti vostri).
STAGED (BBC ONE) 💣
Girata interamente via Zoom, 15 minuti per episodio, questa serie è un gioiellino di umorismo e leggerezza, un “comfort watch” per tenere il cuore al calduccio.
Il pretesto narrativo è semplice: durante il lockdown Tennant e Sheen si incontrano online per le prove di Sei personaggi in cerca d’autore.
In verità provano ben poco: chiusi in casa, annoiati, abituati a viaggiare per lavoro, stanno un po’ perdendo la brocca e ogni occasione è buona per un sano battibecco. Vengono fuori le piccole idiosincrasie degli attori (Quale nome deve apparire prima in cartellone? Davvero sono stato una seconda scelta? E chi era la prima?) e fanno molto ridere.
Il tutto condito alla perfezione con guest star come Samuel L. Kackson, Judi Dench, Simon Pegg, Nick Frost, Chistoph Waltz, Ewan McGregor, Jim Parsons, Phoebe Waller-Bridge, Cate Blanchett, Whoopi Goldberg.
In questa serie non succede niente, ma è un niente che guarderei per ore.
PS: su Prime c’è Good Omens, dove loro due sono i protagonisti, vi consiglio di recuperarla!
DES (ITV) 💣
Perfetta mini serie british di soli tre episodi in cui David Tennant interpreta il serial killer Dennis “Des” Nilsen, che tra il 1978 e il 1983 uccise a Londra almeno dodici uomini, vagabondi o senzatetto.
Quello che rende questa serie avvincente è che non mostra le azioni del killer, ma anzi inizia con il suo arresto (quasi casuale) e con la spontanea confessione di delitti di cui nessuno si era mai accorto, come se cercasse un sollievo dagli orrori di cui è stato artefice. Ma è davvero così? O Des sta manipolando i suoi interlocutori?
Le indagini si svolgono dunque a ritroso su una sorta di cold case che non esisteva neanche.
David Tennant è un grande attore e sa essere un bravissimo cattivo. Qui dà il meglio di sé: con controllata sobrietà e con occhi vuoti e per questo terrificanti interpreta un uomo senza anima, psicopatico e narcisista.
Ho apprezzato da parte degli autori il rispetto e la cura che hanno avuto nel trattare la memoria delle vittime, metà delle quali non hanno mai ottenuto giustizia: su quindici omicidi confessati, solo otto cadaveri furono identificati, mentre Des fu condannato soltanto per sei omicidi e due tentati omicidi.
LOVECRAFT COUNTRY (SKY) 💣
Questa è una serie stratificata e tentacolare (ah ah ah), che è riuscita in pieno ad accoppiare senza intellettualismi avventura e tema politico.
Se da una parte si sfrutta il genere weird fiction lovecraftiano (un mix di horror, fantasy e fantascienza), dall’altra il nome di Lovecraft si contrappone in modo ironico al fatto che lo scrittore fosse un razzista, in un ribaltamento di prospettiva in cui le minoranze sono protagoniste attive nella lotta contro il male.
Siamo nell’America segregazionista degli anni ’50, un contesto storico ben rappresentato che giocoforza si riflette nel tempo presente, denunciandone l’attualità e dimostrando che il razzismo sistemico è radicato negli Stati Uniti, che sono fondati nel sangue e nella sopraffazione del più debole.
Anche i richiami a episodi accaduti nella realtà sono inseriti con grande naturalezza nella trama, a cominciare dal massacro di Tulsa, cui è dedicato il penultimo episodio, fino all’omaggio a Emmett Till.
Ma Lovecraft Country non è solo una serie coraggiosa e bellissima di denuncia e rappresentazione, è anche un appassionante mix di avventure, in una declinazione di temi e di generi accompagnati da una colonna sonora perfetta. Consigliatissima.
AMERICAN HORROR STORY: APOCALYPSE 💨
E finalmente sono arrivata alla stagione crossover tra Murder House e Coven (con un pizzico di Hotel). Le aspettative erano alte e forse anche per questo mi ha causato così tanto dispiacere vedere sprecato un tale potenziale, più che altro per il finale, affrettato e insoddisfacente.
Farò spoiler senza pietà perché diversamente non riuscirei a spiegarmi.
Le premesse sono grandiose: un bell’inizio in media res, con l’apocalisse in corso e pochi privilegiati che vengono messi in salvo in misteriosi luoghi detti Avamposti, l’arrivo di Michael Langdon (che avevamo lasciato bambino in Murder House a uccidere la baby sitter), poi nel terzo episodio si ingrana la quinta: muoiono tutti e arrivano le streghe, che tanto per cominciare resuscitano tre delle vittime.
Da qui partono gli spiegoni in flashback, che ricostruiscono l’arrivo di Cordelia all’Avamposto e la storia dell’Anticristo per prepararci allo scontro finale. Scontro finale, certo, come no.
Il crossover si regge, moralmente, sul sesto episodio, quello del ritorno alla Murder House, in cui si dà finalmente un senso di chiusura alle tante storie rimaste aperte alla fine della prima stagione. È un episodio che funziona e che dà soddisfazione proprio perché riesce a raccogliere i tanti fili svolazzanti, nonostante un evidente impegno verso il fanservice che io ho trovato comunque giustificato (del resto cos’altro sono i crossover se non dei grandi fanservice?).
Fatemi riassumere la struttura della stagione, così vedete dove voglio arrivare. Episodi 1–3: tempo presente post apocalisse. Episodi: 4–9: spiegone in flashback ramificati, chiusure di vecchie storie e resurrezioni di streghe. Episodio 10: gran finale che dovrebbe portare a conclusione tutte le premesse finora costruite. Hm.
E gli autori come decidono di evitare l’Apocalisse e l’ascesa dell’Anticristo? Con un viaggio nel tempo. Un viaggio nel tempo, santiddio. Perché viene fuori che l’Anticristo è troppo forte per uno scontro diretto.
Se c’è una cosa che Doctor Who ci ha insegnato, è che non si gioca con i viaggi nel tempo. E soprattutto non si torna sulla propria linea temporale, si crea un paradosso e non ne viene mai fuori niente di buono.
E infatti.
Innanzitutto, questo finale azzera completamente le chiusure delle storie di Murder House: Constance non muore e non si riunisce ai suoi figli, Tate e Violet non si riuniscono e neanche Ben e Vivian tornano insieme, ma soprattutto la povera Moira non viene liberata. È uno spreco, secondo me.
E neanche le varie resurrezioni stregonesche succedono (succederanno? Sono successe?), visto che viene tolto alla fonte il problema che aveva motivato il loro ritorno.
Ma la cosa che più di tutte mi ha fatto venire il nervoso è che dopo tutto ‘sto casino la strega Suprema Mallory uccide il futuro Anticristo mettendolo sotto con il SUV. Madonna che anticlimax.
Non potevano impedire direttamente il concepimento? Sarebbe stato molto più divertente cancellare del tutto la prima stagione, no?
E non contenti, in un’ultima scena ciccia fuori un altro bambino diabolico killer di baby sitter. Così de botto, senza senso.
Che è successo? Mi sono persa! Multiverse? Nuova linea temporale? Boh.
Insomma, troppa carne al fuoco e pochi episodi a disposizione hanno reso questa stagione debole e sciatta, in cui succede di tutto ma niente è mai davvero approfondito come si deve. Frustrante.
AMERICAN HORROR STORY: 1984 🔪
Senza alcun riferimento al 1984 di Orwell, l’ultima stagione di AHS omaggia gli anni ’80 (ma dai?) e i sani slasher di una volta, tipo Halloween e Venerdì 13, aggiungendo un elemento soprannaturale ormai ricorrente nell’universo della serie (che spero avrà un giorno una spiegazione, perché inizia ad essere ripetitivo in modo un po’ troppo sospetto).
Per chi non ha dimestichezza con gli slasher, lascio la parola a Wikipedia: è un genere di film horror che ha avuto il suo apice tra il 1978 e il 1984, in cui “l’antagonista principale è un maniaco omicida (spesso mascherato) che dà la caccia a un gruppo di persone (spesso giovani) in uno spazio più o meno delimitato, utilizzando in genere armi da taglio per ucciderli in modo cruento”.
La struttura narrativa e la regia di 1984 rispettano perfettamente il canone, compresi gli avvertimenti iniziali ignorati dai protagonisti, che a loro volta rappresentano gli archetipi del genere.
Quindi, se come credo avete presente questo genere di film, sapete anche che non potete prenderli sul serio e non potete aspettarvi dei risvolti di trama logici e inespugnabili. Se accettate questo “patto”, allora non vi resta che divertirvi e aspettare il prossimo fiotto di sangue.
Tornando con astio ad Apocalypse: qui c’è un serial killer (il Night Stalker, realmente esistito) che invoca Satana chiedendogli praticamente di tutto, a cominciare dalla resurrezione, e Satana gli concede tutto quello che chiede.
Il povero Michael invece deve sempre cavarsela da solo perché papino non gli presta mai attenzione. Ora, ma io dico, a quello là sì e a tuo figlio mai niente? Lo lasci morire come un piccione in corso Francia? E ancora ci chiediamo come nascono i dissidi padre-figlio.
Menzione speciale per i titoli di testa, forse i migliori fino adesso.
DERRY GIRLS (NETFLIX) 🎒
Comedy super divertente, ambientata in Irlanda del Nord nei primi anni ’90, racconta la quotidianità di un gruppo di amiche goffe e sfigate, in cui la situazione politica dei Troubles rimane un’ombra sempre presente, ma ben giocata nella narrazione (San Wikipedia, spiega tu i Troubles perché io mi incasino).
La dinamica è sempre la stessa: le ragazze di Derry combinano un casino e lo peggiorano cercando di risolverlo.
Detta così sembra banale, ma fidatevi: fa scassare dal ridere!
A loro si aggiungono i personaggi di contorno (la famiglia di Erin e la suora che dirige la loro scuola), che contribuiscono nell’arricchire queste situazioni paradossali e ridicole.
Consiglio l’audio originale per godervi anche la loro parlata.
VUOTI DI MEMORIA
Non è proprio delusione, è più il mio cervello che non ricorderà di averle viste.
TRUTH SEEKERS (PRIME VIDEO) 👻
Piacevole commedia horror britannica, creata da Simon Pegg e Nick Frost (quelli di Shaun of the Dead, per capirci), da non confondere con le parodie tipo Scary Movie: commedia e horror qui non si mescolano, piuttosto camminano una a fianco dell’altro, lasciandosi spazio a vicenda.
Non aspettatevi che faccia così paura da dormire con la luce accesa, anzi, ma la tensione è ben costruita, mentre la parte più comica è affidata ai protagonisti nella loro goffaggine (soprattutto Malcom McDowell, che già in Mozart in the Jungle aveva dimostrato di saper far ridere di gusto).
Idea buona anche se imperfetta: parte un po’ lenta nei primi episodi ma inizia a rifarsi quando la trama orizzontale si chiarisce (solo verso il sesto episodio, però). Ci avrei visto del potenziale e probabilmente avrei guardato una seconda stagione, ma ho letto che Amazon l’ha cancellata. Amen.
BONDING (NETFLIX) 🐧
Tanto mi era piaciuta la prima stagione, quanto mi ha lasciata indifferente questa seconda.
Se nella prima stagione si dava spazio al paradosso e al grottesco a scapito dell’approfondimento dei personaggi, nella seconda c’è il tentativo di rimediare a quella che per me non era affatto una lacuna. In episodi di 18 minuti non si può scavare troppo a fondo e si deve scegliere cosa tagliare e a cosa dare risalto, e io onestamente ho preferito lo spirito più cazzaro della prima stagione.
Resta comunque una serie veloce e godibile, che tratta con ironia e senza pregiudizi un tema poco conosciuto come quello del BDSM.
La consiglio come svago tra un episodio e l’altro di altre serie più impegnative.