Cotto e guardato: gennaio 2021
Dove si inizia a intuire che il 2021 è un tipino competitivo.
Dove si inizia a intuire che il 2021 è un tipino competitivo.
C’è ancora la pandemia, i vaccini subiranno un lieve ritardo (ci scusiamo per il disagio), il governo è in crisi e neanche io mi sento tanto bene [semicit.].
Per affrontare la situazione con dignità mi sono fatta aiutare da un recap del 2020, un finto reality reale, un’icona di New York, una setta, i capelli di Nicole Kidman, due adolescenti problematiche e Bill Murray.
Ci sono riusciti? Direi di sì, ma è anche vero che questo gennaio mi sembra sia durato 50 giorni.
DEATH TO 2020 (NETFLIX)
Due dati di fatto su questo mockumentary degli autori di Black Mirror: è molto divertente ed è un po’ troppo “anglo-centrico”.
Gli attori sono grandiosi, Hugh Grant su tutti, anche se la mia preferita è Leslie Jones, la psicologa che odia tutti. Non sarà memorabile e inevitabilmente è legato al presente, ma di sicuro vale i settanta minuti di visione.
Sui titoli di coda chiedono agli intervistati di recitare alcune frasi preventive in vista dell’eventuale sequel 2021, tipo: “Ma nessuno poteva prevedere cosa ci avrebbe fatto il vaccino o come avremmo usato i nostri nuovi poteri”, ma soprattutto:
Era l’ultimo leader mondiale che mi sarei aspettato di vedere ficcarsi un uovo sodo nel culo sulla televisione italiana.
…eh?!?
AMERICAN HORROR STORY: ROANOKE (DISNEY+)
Questa stagione mi ha fatto abbastanza paura, arrivavo troppo rilassata dalle altre. Mai abbassare la guardia.
Nella prima stagione si faceva riferimento al mistero (autentico) della scomparsa della colonia dell’isola di Roanoke alla fine del 1500: è qui che i protagonisti comprano un’enorme casa che costa pochissimo, bosco compreso.
E in questa casa enorme, isolata e sempre buia - ma accendete le luci, dico io - succedono cose spaventose. Classica trama horror, compresi i cliché dei personaggi cretini: sei da sola in casa, spaventata da strane presenze? Chiaro, vai fuori a farti un bagno. All’aperto. A farti un bagno. Di notte.
E poi andatevene, non state lì a fare i pidocchi che ci avete speso tutti i soldi. No, rimangono.
Si ritorna al sano horror tradizionale, dicevo, ma Ryan Murphy ribalta la situazione decidendo di eliminare la messa in scena narrativa per destrutturarla completamente.
Roanoke si rivela un ambizioso esperimento metatestuale che ricrea diversi format dei reality tv in stile true crime: la narrazione è affidata solamente a questi format, declinati in sei trasmissioni diverse, che si susseguono sul piano temporale.
American Horror Story non c’è più: veniamo avvisati che “i seguenti avvenimenti sono tratti da una storia vera”, mancano anche i miei amati titoli di testa, gli episodi durano circa 35 minuti. Stiamo guardando una trasmissione televisiva.
Il primo reality finisce e ne comincia un altro: dalla ricostruzione dei fatti si passa alla realtà, e il tutto, in questa prospettiva, si fa ancora più inquietante.
Ci sarebbero ancora moltissime cose di cui parlare: i rimandi alle passate stagioni si fanno sempre più consistenti, c’è di nuovo Lady Gaga (che anche stavolta fa Lady Gaga, cioè una dea pagana), ma mi sto dilungando troppo e voglio dire ancora una cosa.
Questo continuo ritorno a Roanoke da parte di tutta una serie di personaggi indica che nessuno si rende conto che quello che ha visto in tv è accaduto davvero (con le conseguenze nefaste del caso): il reality non viene creduto reale perché la televisione non è più considerata un occhio sul mondo ma un contenitore di invenzioni.
E intanto lo stiamo guardando attraverso una fiction.
FRAN LEBOWITZ: PRETEND IT’S A CITY (NETFLIX)
Il concept è molto semplice: Martin Scorsese fa partire la macchina da presa e lascia parlare la sua amica Fran Lebowitz, che ha un’opinione (intelligente, spiritosa e sensata) su tutto. Fran non si vergogna di dire quello che pensa e non manipola le proprie idee per avere l’approvazione altrui.
Questa mini serie è una delle cose più piacevoli che ho visto negli ultimi mesi, ha avuto il potere di rilassarmi e divertirmi e di accompagnarmi in una passeggiata a New York, che fa da sfondo ma che inevitabilmente diventa co-protagonista. Si guarda in una serata, ve lo consiglio con tutto il cuore.
Non avevo mai sentito parlare di Fran Lebowitz prima, ma adesso è il mio nuovo idolo e voglio appendermi il poster in cameretta.
Su Youtube ci sono tantissime conversazioni con lei, addio.
AMERICAN HORROR STORY: CULT (DISNEY+)
Si sa che gli horror sono spesso metafora politica della realtà contemporanea.
AHS Cult esce dalla metafora e porta la realtà nella fiction, iniziando la stagione con un ululato di dolore per la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del 2016: l’orrore è reale e personificato, i mostri sono emanazioni fisiche di un clima politico terrificante. Questa volta non ci sono elementi soprannaturali perché non servono.
Le fobie della protagonista (Sarah Paulson, grande urlatrice) prendono vita attraverso il “Divine Ruler” Kai Anderson (forse il personaggio migliore e più complesso nel mondo di AHS), che usa la paura che aleggia tra i cittadini per manipolarli e ottenere potere politico, e approfittando del contesto per costruire la sua setta misogina e maschilista. A questa, inevitabilmente, si contrappongono le donne, che si rivelano non così diverse dal loro nemico: l’inquadratura finale ci dimostra che il male non muore mai.
Questa stagione non è la mia preferita (Asylum è ancora imbattuta), ma è di certo la più americana di American Horror Story ed è stato molto interessante vederla proprio adesso che Trump ha perso e dopo i fatti di Capitol Hill, immaginando un clown al posto dello sciamano.
THE UNDOING (SKY)
Varrebbe la pena vedere questa mini serie solo per la recitazione, che è a livelli davvero alti.
È un thriller che funziona e non ho voglia di fare la pignola evidenziandone i (pochi) deragliamenti, perché non sono così importanti. Il mio consiglio è di stare al gioco, provare a capire cosa è successo veramente e lasciare che i colpi di scena facciano il loro lavoro.
Senza fare spoiler, il finale rimane coerente con l’impianto narrativo costruito nel primo episodio e questo secondo me è l’altro punto di forza del racconto, in cui cosa ci viene raccontato passa in secondo piano rispetto al come.
EUPHORIA SPECIAL — part 1: RUE e part 2: JULES (SKY)
Ecco come trasformare un ostacolo in opportunità. Rimandate le riprese della seconda stagione a causa della pandemia, Sam Levinson ha girato due episodi speciali, intesi in senso letterale: diversi dalla serie principale per narrazione, scelte registiche, sperimentazione, approfondimento.
Set ridotti all’essenziale, è la parola che si fa protagonista, con dialoghi mai noiosi e sempre densi di significato.
Mentre Rue, con il suo sponsor, affronta le ragioni della sua ricaduta nella dipendenza (con un impianto quasi teatrale eppure estremamente dinamico), Jules, con una psicologa, ci racconta finalmente il suo punto di vista, non solo sulla sua storia con Rue, ma anche e soprattutto sulla sua idea di femminilità, che si rende conto essere stata filtrata e deformata da quello che gli uomini vogliono vedere in una donna.
La mano di Hunter Schafer nella scrittura di questa parte è palpabile: grazie, ce n’era bisogno, non solo in termini di rappresentazione ma anche di comprensione in un discorso più ampio sull’identità di genere.
Potentissima la valenza simbolica dell’appartamento a New York, in cui le due ragazze immaginano di vivere insieme: mentre per Rue è un bellissimo sogno, per Jules finisce per essere un incubo.
In contrasto con la prima stagione, tutte e due le diciassettenni, nel momento in cui hanno l’esigenza di capire se stesse, si interfacciano con due adulti, nella loro veste di mentori e figure autorevoli.
ON THE ROCKS (APPLE TV+)
Sofia Coppola ci racconta una storia in cui la protagonista (alter ego?) è la figlia di un uomo famoso, ingombrante, che domina sempre la scena (Francis?).
Lo fa con toni leggeri e con un senso dell’umorismo che funziona sempre, ma senza sacrificare temi più malinconici, complessi e profondi. Bello.
L’ANGOLO DELLE DELUSIONI
COME VENDERE DROGA ONLINE (IN FRETTA) (NETFLIX)
Non è che mi aspettassi la versione teen di Breaking Bad, ma neanche questa confusionaria minchiata teutonica, i cui unici guizzi d’ingegno sono alcuni elementi metatestuali della narrazione che finiscono sprecati per questo prodotto.
È impossibile empatizzare con il protagonista, un ragazzino petulante, meschino, bugiardo, manipolatore e narcisista, e i due co-protagonisti non possono certo fare un miracolo, per quanto siano più sopportabili.
Poi, io sono fatta come sono fatta e chi mi conosce lo sa già: se uno spacciatore si spara per sbaglio e muore ok, ma non sopporto la violenza gratuita sugli animali. In questa serie tutti gli animali in scena muoiono malamente o vengono mutilati. L’intento sarebbe comico, ma non fa ridere per niente.
THE MIDNIGHT SKY (NETFLIX)
Io voglio bene a George Clooney sin da quando chiamava “Ciccio” il dottor Green (sempre nel cuore), persino quando fa le faccette piacione negli spot di Nespresso. E con la barba mi garba parecchio.
(Lo sentite il “però” che sta arrivando?)
Però che fatica questo film. Nonostante un paio di momenti di tensione ben costruiti ma del tutto inutili, prevedibili e già visti, non fornisce una grande costruzione del retroscena e dei personaggi, che si ritrovano a muoversi su due storie parallele che non si incontrano mai fino all’ultimo minuto, in cui si scopre che The Midnight Sky è un Interstellar che non ce l’ha fatta.
E lì mi è uscito spontaneo il “mavadarvialcü”.
GIRL (PRIME VIDEO)
Lara è una giovanissima transgender che vuole diventare una ballerina.
La macchina da presa la segue costantemente, mantiene l’inquadratura quasi sempre su di lei, rendendoci testimoni di una forza di volontà assoluta, estrema (roba che io sperimento solo la mattina quando riesco a rimandare la sveglia e a fare mini pisolini di nove minuti).
La danza rappresenta la disciplina del corpo, questo corpo che Lara non può accettare, che non la rispecchia e che la disgusta. Il dolore e i sacrifici cui si sottopone (cui sottopone il suo corpo) non sono niente per lei, che non ha dubbi su ciò che vuole per se stessa. La sofferenza è solo passeggera. Ma ha quindici anni e ha fretta, non vuole sottostare ai tempi della transizione, tutta la sofferenza che si impone non basta più. Vuole che anche il suo corpo sia Lara.
Film bellissimo fino al finale, dove mi è scaduto malamente. Non so se perché è stato affrettato, o perché richiedeva da parte mia una comprensione maggiore, ma Lara compie un gesto estremo - che avrebbe meritato un approfondimento - di cui vediamo solo l’esito felice. Avrei gradito un po’ di argomentazione in più proprio per la violenza implicita di quel gesto.